vendotto


Se un’estate per esempio…
7 agosto 2015, 13:38
Filed under: Pescara

Se un’estate per esempio mi arrivasse di fianco,

irrompesse nei miei giorni

Un’onda di freschezza, un vento di sollievo,

le grida e la sabbia,

se un’estate mi volesse con la sua carica di libertà

l’abbraccerei senza pensarci,

nei giorni caldi come il deserto e il miraggio del mare,

Se un’estate fosse qui,

tra il soffiare notturno e il sole,

la corsa all’ombra, l’odore di crema,

se un’estate per esempio

fosse il mio domani, con il sonno sulla spiaggia,

un libro sul petto e lo sguardo all’infinito,

se un’estate per esempio,

non fosse solo un sogno,

il tempo che passa sarebbe poca cosa,

rispetto all’infinito di un’estate che per esempio,

arrivi di nascosto e rubi il mio cuore

verso l’infinito sognare.



Non è solo BOD ad andar via…

BOD, quel ragazzone irlandese con la faccia da furbetto, una sorta di Leuprachan ben cresciuto e piantato a terra, muscoloso e agile, non giocherà più con la nazionale irlandese di rugby, non illuminerà più i tornei, le discussioni al pub, i video su youtube da guardare di nascosto in ufficio.

E’ inevitabile, è il tempo che va via.

Era poco più che un ragazzetto quando balzò nelle cronache sportive, in una sola partita fece tre mete alla Francia a Parigi, facendo ottenere al suo side una vittoria memorabile, che a Parigi mica vinci così… Era poco più di un ragazzetto, ma pur sempre il numero 13 dell’Irlanda.

Ed ora quel #thirteen rimbalza su twitter, corre sui siti web, è sulla bocca di tutti.

Quando O’Driscoll giocava le sue prime partite da titolare, non c’era twitter, non c’erano gli smartphone, non c’era neanche facebook. Era Internet 1.0 e non era la vita di tantissimi di noi, non ancora era così prepotentemente presente.

Il rugby era divenuto sport professionistico da pochi anni, la gran parte dei giocatori era ancora “normale”, ragazzi sportivi, muscolosi si, ma non quei robocop mostruosi che si vedono oggi. E Brian con quella maglia dal verde che sembrava già un po’ scolorito, quella maglia che gli andava anche un po’ grande e quei capelli sul biondo, rappresentava la prima generazione nata con il professionismo..

E correva e sembrava imprendibile e poi faceva le smorfie, aveva quell’espressione da furbo che non sai se quando ti parla ti sta dicendo una cosa vera o ti sta clamorosamente prendendo per culo, una faccia poi che non sai se ti ispira più simpatia o voglia di prenderla a schiaffi.

Corre Brian e diventa presto una certezza. Della sua Irlanda, del suo Leinster che cresce assieme a lui e dei Lions che si riuniscono ogni 4 anni e lui c’è sempre.

L’Irlanda non vince da troppo tempo. Ma c’è una nuova generazione in campo. La generazione dei BOD, dei ROG, di Paul O’Connell, di D’Arcy, di Murphy porta nuove speranze nell’isola, per quel rugby che non porta risultati da 15 anni e che non ha il seguito che potrebbe..

Intanto anche l’Italia è entrata nel Sei Nazioni e finalmente possiamo tifare il rugby di alto livello. E così in tv si vede il catino del Lansdowne Road, pieno di irlandesi con i loro cappelli, i loro baffi e le loro guinness. A guardarlo dalla tv non si capisce come possa stare in piedi quello stadio. La tribuna coperta sembra cadente, si vede il treno che passa durante la partita, nelle curve, i terrace i tifosi sono tutti ammassati in piedi. E’ vecchio e altrettanto affascinante. Immaginiamo che un giorno saremo lì, a tifare per la nostra Italia e magari battere quell’O’Driscoll che quando gioca non fa capire niente alla nostra difesa… In massimo dieci anni lo batteremo..

E lui Brian ci rimane in mente mentre sogniamo di essere anche noi come lui, di poter evitare gli avversari in maniera così stilosa e ingannatrice.

Il Sei Nazioni diventa un’abitudine, una stagione dell’anno, così come i sabato pomeriggio a guardare le partite in tv, poi la domenica a cercare di imitare i ragazzi. E quell’Italia da sostenere e la convinzione che miglioreremo.

Fianlmente entro in quel Lansdowne Road… che emozione!! E’ un freddo sabato di febbraio, sono da poco a Dublino, c’è la partita e seguo la massa di italiani che si dirige allo stadio. Prendo un biglietto dal bagarino e sono nella terrace, in piedi, ammassato a guardare un’Italia che oggi – 8 anni dopo- una prestazione come quella se la sogna.

In campo, a rappresentare la sua Irlanda come capitano, c’è sempre lui, Brian. Perdiamo ma con onore, quello vero, che fa si che in giro per pub in tanti si alzino per farci i complimenti e qualcuno ci offre anche una birra.

E da lì il rugby diventa per me una passione fortissima. L’atmosfera unica della partita, il casino, i cori, i giocatori a pochi metri da noi. E continuo a tifare per l’Italia, ma anche per l’Irlanda. A 25 anni si sogna ancora ad occhi aperti, quando si guardano le partite, una vittoria è una cosa che da molta soddisfazione. Laddove non può arrivare l’Italia si spera arrivi l’Irlanda. E così ci sono dei Sei Nazioni sbadati in cui l’Irlanda potrebbe farcela, ma a cui alla fine manca sempre quella dose di cattiveria finale e vede svanire i suoi sogni all’ultimo, Irlanda con O’Sullivan alla guida che sembra destinata eternamente al secondo posto… Intanto però ci sono decine di belle partite, come quando l’Irlanda, in un Croke Park colmo di commozione e partecipazione, batte per ben 43-17 l’Inghilterra.

Poi c’è il 2009. Kidney in panca e finalmente, la generazione, quella generazione di fenomeni, impara a vincere. Dopo 61 anni c’è il grande slam. Brian, uomo ormai maturo e rugbista di comprovata esperienza, segna una meta per partita, tranne che nell’ultima, contro il Galles, partita in cui realizza un placcaggio strepitoso sulla linea di meta.

E’ lui che più di chiunque altro vuole questa vittoria e la vittoria arriva. E io me ne sto lì a guardarli, a soffrire e gioire con loro. Non si può non amare questa squadra non si può non amare questo BOD..

E poi.. BOD dice che è stanco, vuole terminare la sua carriera. Ci prova allora nel 2013, ma non è troppo convinto, il pubblico dell’RDS gli canta “one more year” e con la solita faccia da Leuprachan un pò cresciuto lui ride ed accetta, one more year. Ma l’anno prossimo smetto. E poi aggiunge che vuole finire in a high.

E così a novembre c’è la guerra contro gli All Blacks.. sembra un sogno, diviene un incubo quando gli AB alla fine passano dopo l’80 minuto.

2014 e BOD 13 verde è lì per il Sei Nazioni. Combatte, corre, passa sottomano. Arriva Irlanda Italia, siamo all’Aviva, nel frattempo non ne ho mai saltato uno di incontro a Dublino. Siamo tutti e due lì, ai soliti posti. Invece del vecchio terrace adesso sono in uno stadio sofisticato, ipermoderno, ma ricostruito sulle ceneri di quel catino e il trenino passa sempre sotto la tribuna.. e dalla direzione di Bath Avenue arriva sempre quella brezza marina fredda la sera. E’ l’ultima di Brian in casa con il 13 verde. E come sempre corre, passa sottomano, placca, cambia passo rapidamente, il solito BOD. l’Irlanda ci annienta. Poi si commuove quando saluta il suo pubblico, i suoi genitori, sua moglie la sua bimba. Ciao Brian. E intanto nascondo le mie lacrime, nascondo i miei pensieri, che se ne va anche lui significa che quella che era la mia gioventù sta sfumando, nascondo tutto dietro una birra, un coro, un saluto con gli amici ovali di sempre.

Ma c’è un’ultima cosa. L’ultima del torneo, l’Irlanda che va in quel temibilissimo stadio di Parigi. Brian nacque lì come leggenda, correva l’anno 2000, divenne lì BOD. Sono a Roma, in un Irish pub, dopo aver visto anche l’Inghilterra annientarci. Ed è il mio trentaquattresimo compleanno. Nervoso come se giocasse mio figlio. Non può accadere che l’Irlanda non vinca questa partita, facendo finire la carriera di BOD con la vittoria del suo ultimo Sei Nazioni. Davanti allo schermo soffro e mi dispero, urlo BRAIANO ogni volta che BOD prende palla e lo ammiro, una volta ancora, vestito di verde… E poi c’è la tensione della fine, la Francia non molla, anzi attacca fino a alle fine, basta un misero calcio per far si che Brian non esca dalla sua carriera verde on a High come ha sperato. Gli inglesi che sono al pub tifano Francia, ma non sono troppo convinti, BOD merita questa vittoria. Siamo alla fine e la Francia attacca, quella meta.. sconforto terribile.. Ma no, era avanti, si era passaggio in avanti. L’arbitro l’annulla, ci siamo quasi, manca una mischia. L’Irlanda si complica la vita perdendola, ma poi bloccano alto il portatore francese, ragazzi è fatta, l’Irlanda vince il torneo, BOD finisce col trofeo la sua carriera internazionale e noi… noi smarriti dal suo addio, lo ringraziamo e siamo costretti a fare i conti con il fatto di non essere più giovani.

 



38 Barcroulin
21 novembre 2013, 21:45
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38 Barcroulin

Sabato 14 Dicembre
Se vi va bene… Altrimenti spostiamo… Esprimetevi!!



Tipica canzone Giappocinese



Cose russe -Quinta ed ultima parte -FLUCTUAT NEC MERGITUR
12 Maggio 2013, 19:39
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‘Non sarò breve, perché non rientra nella mia natura’ disse un giorno un uomo al telefono quando col telefono mi procuravo dei soldi che quindicinalmente finivano al pub. ‘Quei pazzi mi hanno pagato ancora’ e i soldi finivano. Al pub, l’ho detto!  Natura stessa dei soldi, liquida, se ne volete sapere di più leggetevi Simmel, io non ne ho che un ricordo un po’ tendenzioso, roba di ‘sterco del demonio’ e pensieri relativi.

 

Fatte le premesse spostiamoci nello spazio del racconto, irto di difficoltà, ma da attraversare, quasi in apnea.

 

Eravamo rimasti che era venerdì sera e che il Timballo ci aveva gentilmente lasciato sotto casa mia.

 

Eravamo rimasti che sinceramente avrei preferito che a desinare ci fosse Fisarmonichetta, ma tant’è, avevo con me Ierofania, something to talk about e appunto parliamone, anche se la notizia non fa più notizia.

 

Insomma mi improvviso cuciniere. Io che mai, che no, che ‘che palle cucinare’, mi dipingo le vesti e mi incappello da chef e rendo mansueti i miei fornelli, quasi fossi incantatore di scimmie, quasi fossi credibile. Nel fumo di olio che frigge in padella se ne vanno tutte le paure, il fornello, anche in uno spazio aperto sa essere trincea, luogo di difesa e di attacco; costantemente comincio, saltello con la zampa buona, rendo la cucina un ring inaccessibile a lei. Lei che siede molto più tranquilla di quanto avessi mai potuto immaginare, quasi maneggiasse da sempre fettine di prosciutto crudo, salame locale, formaggio col tartufo e diavolerie che avevo disseminato sulla tavola come fossero antipasto. Nel mentre il vino. Rosso, lo vedi, Montepulciano d’Abruzzo che mogli e buoi dei paesi tuoi è un detto sempre attuale, e se c’è qualcosa su cui non ci si deve sbagliare nei giorni nostri è la scelta del vino. Soprattutto per te stesso. Vuoi mettere se prendi un vino frocio, prima di tutto ci rimetti tu.

 

Pieni i bicchieri, si brinda. Hic et nunc. Faccio un attimo mente locale. Mi guardo attorno, vie di fuga non ce ne sono. Si gioca. Fluido il parlare, a volte le barriere linguistiche si mettono in mezzo, inesorabili come barriere frangiflutti. Penso a quel che sono, quel che sono stato quel che sarò. Poi scompare tutto in un rutto fatto di nascosto. E sono solo all’oggi, all’istante, al momento.

 

Scopro che dietro un po’ di trucco, delle gambe autostradali, tacchi almeno tangenziali, c’è della simpatia e della semplicità. Mangia il formaggio, mangia come non l’avrei ritenuta capace. Mi diletto in giochi di parole, racconti di viaggi, evocazioni del patagonico, il lontano misterioso, che a volte dove sei ti sta stretto, soprattutto se trattasi di cittadina russa industriale e insomma, ricordando anche Chautebriand, faccio tappa a Pescara, Larino che –che ci devi fare con internet-  nelle parole sta il vero viaggio di sensazioni, odori, entusiasmi, soprattutto entusiasmi; che sono contagiosi e quando poi ti brillano gli occhi nel raccontare appari pure tanto convincente. La casa è un campo di battaglia,  i fornelli la mia trincea, il termosifone – sollievo di un piovoso spaventoso – la sua.

 

L’agone va che è una meraviglia. Nei racconti omerici e in tant’altra letteratura cavalleresca – che mai a dimenticare i nostri padri indoeuropei – dopo la battaglia i valorosi guerrieri duellavano anche in parole, da qui il mito. Raccontare. Muovo la spada dove posso, nello spazio e nel nostro tempo, butto la pasta, giro il sugo, pomodorini pachino e semplice pancetta, niente di cui Vissani andrebbe orgoglioso, ma Maria Primate, lascatemelo dire, si.

 

Cucino  e non penso a tutta quella vicenda che ha scombussolato l’azienda tutta  e il mio non pensare a Gassosi e relativi complotti, a Aspirini e Alcantari che non so dove stanno ma so sicuramente cosa stanno facendo, a tuta una sequela di gente che è stata coinvolta dall’onda lunga, a nessuno penso io e mi concentro sull’asse passante tra due punti e metamorfizzatasi in sugo e pancetta.

 

Presto che si mangia.

 

Il seguito è tutto un po’ normale, la classica storia di lui che attacca e lei che difende o qualcosa di simile, l’avrete vissuta centinaia di volte, l’avrete vissuta col cuore che batte un po’, ma manco tanto, e lo sguardo che esprime gocce di felicità. Bene. Arriva il momento del commiato. Dove cazzo vai, penso, non ho completato l’opera.

 

Quando eravamo bambini, cioè fino all’estate scorsa, capitava spesso di stare sopra rocce alte su pezzi di mare, fiume, lago  a meditare ad aspettare il momento opportuno per gettarci e vivere il brivido dei coglioni nel soave volo con atterraggio liquido, quattro, cinque metri di volo. Hai sempre un po’ paura. Per quanto ti pavoneggi nel tuo inimitabile coraggio, nel fare il tipo che si butta senza pensarci neanche su – che chissà quante di peggio ne ho viste – hai sempre un po’ paura, dicevo.

 

Quando baci la bocca sei tu. Ti butti come dagli scogli altissimi, ti butti e speri di trovare un mare ad accoglierti trionfante. E invece. In tanta perfezione stilistica, preparazione, eleganze, di tanta beltà che potevi prendere in questo bacio imposto, rubato, prendi proprio l’angolo, l’unico angolo del labbro superiore che aveva tralasciato di depilarsi e invece che morbide labbra incontri questo spino che ti ferisce come fosse spino a difender rosa – e forse lo è – e ti ricordi di come per mesi hai tampinato un’altra tipa e questa proprio quando ha deciso di popolare un letto con te ha tralasciato di depilarsi parte delle gambe e insomma in qualche modo perdonatemi questo sfogo senza stile alcuno, ma il problema della depilazione femminile esiste e qualcuno dovrà pure trovare il coraggio di parlarne un giorno, no?

 

Detto in parole povere, io ci provo a baciarla, od ora o mai più, Ierofania sarebbe destinata a partire il giorno successivo – ma poi vulcani, aerei e tanto altro ancora che poi saprete – e lei gentilmente declina e io mica potevo fare niente di più che ovviare e continuare a sorridere che per sorridere ci sono sempre N ragioni.

 

E qui, qui cari amici che avete letto queste vicende, qui mi accommiato da voi.

 

Il pettegolezzo, i mezzucci, le rose, l’amicizia e l’amore ho cantato in queste cinque puntate smosse dal vento e dalla pioggia di un terribile aprile del 2010.

Adesso, da cavalier romantico vi saluto, carissimi.



Cose russe – Parte quarta
6 Maggio 2013, 10:13
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Venerdì.

Dopo giorni di chiacchiere e battute tutti si sentivano legittimati a chiedermi ‘cosa hai fatto ieri sera?’ Semidignitosamente tacevo o cambiavo argomento o sottolineavo altri aspetti della vita, che insomma, mica esisteva solo il chiacchierare e il corteggiare una ragazza russa che da qualche giorno frequentava l’ufficio, proprio no.. C’erano tante, tantissime altre cose da fare e insomma in quel preciso momento non mi venivano in mente, ma c’erano come no.. Certo non pretesi che nessuno pensasse che l’altro da fare fosse il lavoro, avevo anche io una mia dignità!

Ancora arrivavano – in fase calante però, forse la novità era un po’ passata di moda – richieste e battute sulla russa Ierofania.  Epperò… In ufficio i colleghi  Cubarhumeroedeiduemondienonsolo e Gilgamesh continuavano ad incitarmi. Qui non si trattava di un qualcosa che volevo o non volevo fare, qui cominciava a trattarsi di un qualcosa che dovevo fare o quantomeno provare a fare, in nome della mia squadra, del mio pubblico… Sentivo tanta pressione addosso e scrivevo a più persone ‘non vedo l’ora che sene vada e che torni la pace tra tutti noi’.

Aspirino e Alcantar ridevano di meno, la novità stava passando per tutti.

In quel giorno avevo proprio da lavorare, insomma, giocare al computer, quello che oggi si chiama lavoro, per un paio di ore con lei. Tutto andò normale. Facemmo quello che dovevamo fare, un paio di ore passarono velocemente tra query, controquery e cazzate del genere. Nel frattempo ogni tanto apparivano le email di amici e conoscenti, tra cui una con scritto in caratteri enormi ‘IEROFANIA’, a schermo intero, che lei non può aver fatto a meno di vedere. Ma vabbè. A parte questo non dissi nulla, proprio nulla. Non le chiesi se la sera prima fosse uscita con l’uomo mascherato che manda i fiori che noi tutti pensiamo si chiami Gassoso, ma poi chissà. Del resto non mi riguardava più di tanto, no?

Ad ora di pranzo vado via. So che Ierofania andrà via anche lei, in giro per stabilimenti e vabbè non la saluto che potrebbe sempre tornare utile il non saluto. Mi reco a pranzo con degli amici che lavorano al reparto delle cose perse e anche loro mi interrogano ripetutamente su tutta la vicenda. La curiosità l’ha fatta da padrona in questi gironi, non c’è che dire. Ci vorrebbe una conferenza stampa, con tanto di veline e quelle scritte e quelle che appaiono desnude in televisione. Ma vabbè. Senza troppo dilungarmi indico la situazione alla bell’e buona. E mi rendo conto di quanto le voci girino e di quanto si ingrossino, cambino, fino a diventare lontane parenti della realtà. Il paese e piccolo e la gente mormora e modella la verità a immagine della propria volontà e via dicendo…

Era finita, praticamente. Pensavo che forse avevo lasciato passare Ierofania senza un gesto per fermarla. Ma poi, poi. C’è che poi finché non è finita appunto non è finita, o che vuoi che si dica, finisce quando lo dico io!

Fu così che nel silenzio della scrivania, tutti convinti che lei stesse lì per lì per partire, tutti attratti, proiettai nel fine settimana e dimentichi delle vicende che riguardano queste quattro mura, ricevetti l’ulteriore incoraggiamento di Samovara. ‘Che la forza sia con te!’ disse. La forza di che?

Venerdì sera e fuori piove, venerdì sera e sembra dicembre. E poi le stampelle e che palle dover girare così, non poter muoversi e fare quel che si vuole. Dipendere…

Si la invito, ma dove. Senza macchina, piove, e che cosa mi invento?

Mi invento che l’invito a casa, dai.

E così spronato dai migliori rappresentanti della colleganza aziendale, Gilgamesh  e Cubarhumeroedeiduemondienonsolo e accompagnato da Aspirino e Alcantar mi riprometto di invitarla a cena e nell’eventualità dovesse accettare boh, si vedrà.

C’è che entro in casa e mi butto sul letto a riposare la zampa malata. C’è che penso, si anche io sono aduso a pensare e spesso mi perdo nel groviglio infinito che in altro modo chiamiamo pensare e penso: ma a me, onestamente, cosa me ne frega di sta russa? Certo, è bella. Certo, vuoi mettere, la stima, l’invidia il senso di rispetto… E quindi??

Così, così, prendo il telefono e invece di far partire una chiamata per un +79, la faccio partire per un comunissimo +39.

E chiamo la ragazza dal gatto Giuliano. C’è che forse, molto meno russa, mi mette tanto più di buon umore; meno fissa nello spazio, dinamica, veloce, Fisarmonichetta ha confidenza col mondo sospeso dei pensieri e delle cose, volteggia celere nel mio campo visivo – e altrettanto celermente ne sa scomparire. E poi c’è che ride. La volontà sarebbe quella di fermarla.

Chiamo e dopo un po’ risponde. Il più il meno e i loro contrari reciprocamente divisi. ‘Esci? poi, che fai’?‘Ti aspetto’ Le dico. ‘Ti aspetto, qui, a casa’.

Tutto quello che segue comincia per N.

E via ancora a cercarle di dire che veramente vorrei che venisse un po’ da me. Tanto veloce a scomparire quanto ferma nel negarsi. E rimango con le mani in mano a guardare il soffitto senza nessun colore. Natalie Merchant canta. Fisarmonichetta non vuole. Avrei anche cucinato. Altro che fiori.

Ecco c’avevo provato a far quel che volevo, io. C’avevo provato a invitare Fisarmonichetta e il suo ridere confortante. Per non rimaner solo, altro non avevo che da chiamare ierofania, tanto feci.

Lei disse che si, che sarebbe venuta; C’avevo provato io a impedire sta cosa. Fosse andato tutto incredibilmente bene sarei tornato in ufficio con l’aria di quello che ‘ce l’ha fatta’. Avrei forse girato con la foto di lei e il sorriso stupido e l’espressione soddisfatta ‘io ce l’ho fatta’… E maschietti mi avrebbero guardato stupiti ‘lui ce l’ha fatta’ mentre forse avrei ancora pensato a Fisarmonichetta.

Niente. SOS Timballo!

Arriva un po’ incazzata Timballo. Arriva però. ‘Corri, devo fare la spesa’. Le avevo detto pochi minuti prima. Arriva, andiamo al supermercato, compriamo cose. Vini, salumi, formaggi. Pasta.

Timballo è tanto gentile che sale a casa. Pulisce, pure. Impagabile. Vorrei arrivasse davvero Fisarmonichetta da qualche dove.

Andiamo a prendere Ierofania. Timballo si lascia scappare un ‘che figa!’ alla sua vista (La sera prima si era lasciata andare a stupide polemiche del tipo ‘non è vero che è bella’ e cose del genere).

Piove come fosse un film. Timballo ci lascia sotto casa, dico a Ierofania ‘Just the two of us’. Lei non fa una piega. Sale a casa. Sembra un film. Solo vorrei che la protagonista fosse un’altra.

Probabilmente ho commesso un altro errore.



Cose russe – parte terza
29 aprile 2013, 09:55
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La strada è piccola e leggermente trafficata. Dentro lo sfasciacarrozze, amato locale ristorante vineria, il telefono non mi prende. Me ne sto fuori a pensare cosa poter mai rispondere. Forse dovrei spacciarmi per Gazzoso e recarmi lì, all’hotel con noscialanse (se c’è qualcuno che ha il barbaro coraggio di dirmi che non si scrive così lo lapido!) come ci fossi uscito dieci minuti prima, e far chiamare la signorina Ierofania. E poi.. E poi al momento della sorpresa confessare che si, le rose le avevo mandate io oppure, meglio, molto meglio, confessarle che i miei amici da sempre mi chiamavano Gazzoso ed io – porello – avevo spesso crisi di identità, tanto da dimenticare chi fossi, tanto che spesso accadessero cose nella mia esistenza che dire pirandelliane sarebbe un pleonasmo, basterebbe dire mie.

Tutto questo non feci. Nel non silenzioso vialetto tra il passare di macchine e rumorosissime Ape Piaggio, l’unica superfetazione che mi venne fu di scrivere qualcosa relativamente all’essere memmedesimo Primate Maria e di essere meglio del succitato Gazzoso, molto meglio, per tanti ed inelencabili motivi. L’insuccesso di tale operazione era inevitabile quanto di facilissima previsione.

Mi rifugiai in un altro bicchiere di vino, mentre mi interrogavo sul perché non avessi poi inventato qualcosa che magari spumeggiasse almeno un po’, un gioco delle parti, un equivoco condito, un incidente volontario del tutto involontario, un inventar scrivendo che al momento non mi venne.

La venuta della sera e delle sue oscurità era ormai inesorabile, come la nostra fame. Senza troppa voglia cominciamo a girare per Encartencappefrigoefornobourgh,  pensando a dove poter andar a mangiare. C’è Alcantar con Sadimatu e c’è il Timballo, o meglio la preleviamo da casa, mentre stava facendo qualcosa che non ho capito, tipo pulire le stoviglie o lessare le patate. Passiamo davanti a qualche locale e alla fine, unanimemente decidiamo di andare al ‘Cavalcatore Incinto’ luogo che si nasconde tra il dolce ondeggiare e verdeggiare delle colline appena fuori la cittadina. E qui, l’affaire Ierofania, fino a quel momento tenuto lontano come si fa con un demone cattivo e vendicativo, si ripropone come ogni pesantissimo cibo che si rispetti. Ai nostri occhi e con tutta la nostra incredulità c’è Gazzoso. O meglio, quello che noi, investigatori d’alta classe, abbiamo identificato come tale. Cioè il nome è quello (all’anagrafe fa Gazzo, ma sappiamo che si firma sempre Gazzoso)

Oh cazzo!

Da un lato penso che magari lei abbia riservato a lui pressappoco lo stesso trattamento che ha riservato a me, con il non trascurabile vantaggio che io 50 euro per i fiori non li ho spesi..  Dall’altro lato penso ‘cazzo, abbiamo sbagliato tutto, siamo andati completamente fuori strada, però è proprio una faccia di ….’ Insomma, i lineamenti del cattivo da eliminare, dell’uomo a cui destinare una testa di cavallo e una decina di proiettili ce l’ha tutti, fiori o non fiori.

Va bene. Il mio tono di perdente si colora almeno un po’.. quantomeno non ho perso contro lui. Bella soddisfazione, una batracomiomachia o se meglio volete una guerricciola tra poveri o ancora, tra i due litiganti, seppur non dichiarati, non coscienti, magari neanche schierati, il terzo, un terzo non considerato, gode. ‘Tertium non datur, tertium non datur un cazzo! ‘ penso tra me mentre aspetto di ordinare qualcosa che mi dia le energie.

Forse è solo un complotto. Il terzo è talmente tanto forte e potente da aver buttato addosso a tutti questo fumoso antipaticissimo ideal Gazzoso che poi Gazzoso non è. O meglio non è il Gazzoso dei fiori, ma solo un Gazzoso che belbello se ne va per la città. Sento che il mio cervello è troppo piccolo per affrontare una situazione siffatta, così articolata e complessa, piena di scene cruente e agenti di ogni genere, una vicenda al cui solo confronto il ‘Grande Gioco’ a cui faceva riferimento Brzezinski appare come un pettegolezzo da comari di provincia.

Il fatto è che il terzo, visto l’interesse pressoché  totale della popolazione della cittadina, potrebbe essere chiunque. Facendo mente locale penso che alcune delle cose contenute nell’identikit fossero del tutto forzate, che in parte avevamo sostituito i nostri desideri alla realtà, errore che Montalbano –nonono- non avrebbe mai commesso. E allora tornavamo a fare mente locale sul chi può essere stato e adesso, non mi sentivo di escludere proprio nessuno. Poteva essere chiunque. Tornavo a sentirmi piccolissimo, come se mi potessi vedere dall’alto di un aereo ai tempi in cui gli aerei ancora volavano e i vulcani ancora attendevano Godot (mentre io l’avrei attesa in seguito Godot, ma questa è un’altra storia).

Poteva essere chiunque e ripensavo a tutte quelle facce.. Al giornalaio, al parroco, al benzinaio, agli ombrellai e ai bersaglieri, alla signora della rosticceria – chi l’aveva stabilito che il mittente fosse maschio? – al nonno che faceva attraversare i bambini davanti alle elementari… Il mittente poteva essere una qualsiasi persona tra queste e non solo tra queste. Non si sapeva dove sbattere la testa!

Ci voleva una smossa, un’idea, tanto per vederci chiaro. Eravamo disposti a tirarci fuori dal gioco, certo, ubi maior.. ma volevamo capire come, perché e tutti quegli altri interrogativi che fanno sì che gli articoli di cronaca siano tutti noiosamente interscambiabili.

Come quei membri di un partito che si trovi ad affrontare un’imprevista crisi di governo e si trovi a dover convocare una riunione immediata e notturna per fronteggiare le novità inesorabili, ci dovemmo incontrare. Chiamammo all’appello Aspirino e scegliemmo nuovamente come quartier generale ‘esssssì’ del nostro oste di fiducia Noè.

L’argomento fu analizzato in tutte le sue sfaccettature. Era guerra? Non era guerra? Ad ingarbugliare ancor più la vicenda giunse nella notte l’indiziato numero uno. Era gentilmente accompagnato e sembrava piuttosto disinvolto, innocente.  Ordinò da bere. Aspirino immediatamente, con destrezza e scaltrezza, prese il telefono e fece partire quella famosa telefonata – che immagino siano ore che vi stiate chiedendo perché non abbiamo fatto mai- che ci fece deviare d’improvviso lo sguardo verso l’indiziato numero uno. Vedemmo chiaramente la forma del telefono nella tasca destra dei jeans, e vedemmo anche lui che se lo toccava (il telefono, quanto meno attraverso la tasca). Ci aspettavamo solo che rispondesse, che lo prendesse in mano e ci confermasse così che tutti i nostri sospetti erano giusti, che si, avevamo un acuto spirito investigativo che nulla più ci separava dalla gloria… Invece non rispondendo non ci diede questa notizia. Toccò, si, ma non prese l’attrezzo e noi rimanemmo così, attoniti, stupiti, pensanti e le 4557 bottiglie che avevamo pensato di stappare per l’occasione rimasero intonse. E poi non si sarebbe festeggiata solo la magnifica intuizione di Cubarhumeroedeiduemondienonsolo, ma anche l’assenza di un terzo contendente manifestatosi e il fatto che Ierofania fosse davvero rimasta a dormire.

Non giungemmo infine  a niente di concreto. Nel mentre il nostro uomo stava uscendo Aspirino riprese il telefono. Chiamò. Questa volta ci fu risposta, ma questa giunse proprio quando il nostro uomo usciva dal nostro campo visivo.. Aspirino giurò che dalla voce la persona fosse straniera. Comunque rispose in inglese, un inglese fatto di un misero ‘Hello!’ ma perché un numero italiano deve rispondere in inglese?

Ci trovavamo a fronteggiare un’amara, amarissima realtà. Avevamo fallito! Se da un lato infatti come investigatori da tavolino, da ufficio, potevamo anche dire di cavarcela, riuscendo ad avere un buon quadro d’insieme e a districarci in maniera soddisfacente tra gli indizi, come investigatori sul campo lasciavamo proprio a desiderare…

Ce ne andammo a dormire con questa constatazione che ognuno mantenne per sé, per non demoralizzare maggiormente il nostro umore già parecchio colpito… Ce ne andammo a dormire pensando che quello che era o si faceva chiamare Gazzoso probabilmente l’aveva spuntata, mentre noi, in questo gioco di società che avevamo interpretato in maniera corale avevamo perso… ma forse mi e ci sbagliavamo ancora una volta…

 

Parte prima:  https://vendotto.wordpress.com/2013/04/11/cose-russe-parte-prima/

 

Parete seconda:  https://vendotto.wordpress.com/2013/04/19/cose-russe-parte-seconda/



Cose russe – Parte seconda
19 aprile 2013, 10:56
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Lei rimane stupita da queste rose.  Nel raggiungermi fuori dalla macchina di Trappe mi dice subito ‘non sai cos’è successo!’. Io già immerso nel pensare a ‘chi cazzo è stato?’, avvolto dall’orgoglio maschietto de – qualsiasi cosa mi giri attorno è di  mio possesso –  la faccio parlare; ‘fiori tanti fiori, rose, un grande mazzo’.

Trappe ride.

‘Ma chi, chi è stato’ e nel mentre, avendo cominciato a parlare in inglese, ripasso a mente tutte le parolacce che conosco in quella lingua.

Lei non favella. Mi da direttamente un biglietto, il biglietto. C’era qualcosa che diceva che lei era figa, no, scusate, bellissima, meravigliosa e via dicendo e c’cera un nome ‘Gazzoso’ ed un numero di telefono 6567389294779yzyz9987. Magari c’era pure qualche fiore disegnato, qualche cuore sparso di qua e di là. Non ricordo.

‘Ierofania, complimenti sono cose che capitano e sali in macchina che ho sete’

Giungiamo nel luogo predestinato. Costringo Ierofania a raccontare l’avvenimento ad Alcantar che ci aspetta con la faccia assetata e poi ad Aspirino. Qui la situazione è dura… ‘Cameriereeeeeeeeeee… Vino per tutti!!!!!!’.

Nel frattempo anche qui si ripropone il solito giro di amici e amici degli amici che vengono a salutarci. Siamo troppo pericolosamente vicini a Ierofania. Siamo oggetto di visite, gite guidate, safari, commemorazioni, persone affezionate alla Santa Madre Russia, chi ricorda la Terza Roma con affetto, chi si dichiara membro dell’associazione d’amicizia Italia Russia, chi ha apparizioni improvvise e chi si presenta vestito da Pope. E qualcuno ha pure l’aria di aver imparato qualche parola in russo ‘mgna zavut…’

Tra tutti i presenti noto, ma senza dar troppo peso, i due tizi della nostra azienda che erano davanti all’Hotel. Uno viene a salutare Alcantar che commenta ‘ci siamo incontrati un mese fa nel deserto libico di As-Sahra’ al-Gharbiyah e non mi ha neanche salutato da lontano e oggi invece… come cambiano le persone…’

Tra la delusione generale scortiamo Ierofania al tavolo, interponendo un cordone sanitario tra la folla di ammiratori, paparazzi, spie, semplici cittadini curiosi e noi.

Ierofania è alla mia destra, ha di fronte Aspirino e intorno altri amici; c’è Telefonina e c’è Gasdotto che scherza nel suo dialetto sudtirolese. La sera procede bene, Ierofania sembra essere a suo agio, mangia senza troppi complimenti. Tutti, segretamente, però, si stanno interrogando.. ‘ma chi cazzo è Gazzoso?’

Finita la cena ci rechiamo alla vineria ‘Essssssì!!’ dell’amico Noè. Ierofania non beve nulla. Noi ci finiamo a crepà. Uischi e Vov, senza alcun timore.  All’ora della partenza ci dividiamo chi va da una parte, chi dall’altra. Tutti a piedi. E siamo Aspirino, Alcantar ed io ad accompagnare Ierofania verso l’albergo. Lei ci parla dell’idea di venire a lavorare qui. Aspirino e Alcantar non dovrebbero passare davanti all’hotel per raggiungere le loro dimore e io si, invece.  Li odio!!!

E da qui mi viene una considerazione molto, molto naturale. Se questa viene a lavorare qui beh senza troppi misteri, ci sarà bisogno del porto d’armi.. L’agone tra amici, la competizione terribile – ricordo delle giornate al mare quando si avevano dieci anni e lei era altrettanto esotica, veniva da Kyoto (Mi) e rispondeva al nome di Conchiglia–finisce nel momento in cui lei scompare dalle nostre viste. Adesso non vedo più Aspirino e Alcantar come due obiettivi sensibili per il mio mitra, ma nuovamente come due amici. Ci congediamo con una promessa.. domani scopriamo chi è ‘Gazzoso’…

 

L’efficienza nella nostra azienda viene calcolata per i soli operai. Ed è un gran peccato! Fosse possibile calcolarla anche per noi impiegati, non so, in base alle pause prese, alle parole pronunciate, alle risate, ma soprattutto in base alle email del tutto licenziose e per nulla attinenti al lavoro inviate e ricevute, un eventuale controller si sarebbe accorto senza alcun dubbio che la giornata di quel  giovedì è stata nella storia tutta dell’azienda la giornata con meno lavoro per tutti! In particolare, fatto 100 il valore di efficienza totale, potrei quasi permettermi di dire che un po’ di persone di mia conoscenza hanno viaggiato, contro ogni matematica, verso valori negativi. Come è possibile? Beh ci vuol poco a dimostrarlo!

Fatto è che la febbre del ‘chisaràilmisteriosodonatoredirose’ coinvolge tutti. In maniera del tutto centrifuga. Di colpo, mentre indago sul numero misterioso comunicando con amici che lavorano su database in più o meno tutte le parti del mondo, mi accorgo che la situazione ci ha un po’ preso di mano. In realtà dovremmo essere a conoscenza dei fiori e del misterioso ‘uomo mascherato’ in una manciata, quanti ne può contare sulle dita di una mano uno che c’abbia la vista un po’ doppia ma non troppo doppia. E invece. Invece qui poco ci manca che la notizia non compaia tra le pagine del ‘Brufolo – il nano adolescente’ il nostro apprezatissimo sistema di intranet.

E intanto le indagini vanno avanti. Da scafati 007, esperti di uomini, donne e loro vizi, ripercorriamo attraverso le nostre email tutti i passaggi salienti. Ci improvvisiamo psicologi, ornitologi.. con un’astuzia che farebbe invidia a tanti commissari della tv – Montalbano, chi era costui? – vagliamo le prove che ci giungono, ricostruiamo pezzi di vita, guaridamo al passato, studiamo le intenzioni e giungiamo a una conclusione.

Ed è Cubarhumeroedeiduemondienonsolo, il mio compagno di banco in ufficio, a dare una risposta a tutte le nostre domande.

Il nostro indiziato ha tra i 30 e i 40 anni, di sesso maschile, lavora presumibilmente nella nostra azienda, fuma Marlboro Lights, si masturba con la mano sinistra, è stato vegetariano, è single, timido ma non modesto, ha frequentato da bambino il logopedista, indossa biancheria scura, preferisce il mare alla montagna, ha una spassionata tendenza a provarci con le ragazze – anche se evidentemente fuori dalla sua portata – tentando di stimolare il loro lato esoterico, cercando di far aleggiare il suo karma nell’aria con doni e dolci favelle.

A questo profilo, il nostro fumettista/caricaturista/artista di fiducia aveva fatto seguire un identikit grafico. Ci appariva in tutta la sua bastardaggine questo figlio di puttana, (in realtà era un innocentismo e forse romantico gentiluomo, ma per noi appariva come il più miserabile e dannato violentatore seriale e in quanto tale da punire con  la massima severità!) e l’istinto indomabile di prenderlo a schiaffi, di spegnerli una sigaretta sulla lingua o gentilezze del genere.

Le ricerche erano state dure, ci avevano portato via non solo la mattinata, ma anche il pomeriggio e stavamo sfociando nello straordinario. Piccolissimo particolare, in tutto questo casino mi ero dedicato anche al dialogare con Ierofania. E la mia attività era stata forsennata. Avevo usato tutta la mia capacità di chattatore di lungo corso per dimostrarle come chiunque ti mandi dei fiori senza poi farsi vedere, senza metterci la faccia sia un soggetto infantile, tutt’altro che affidabile.. non volevo usare la parola maniaco del tutto esagerata e poco augurante, ma ecco, facevo un po’ da sindacalista per l’uomo che no, le rose non te le manda, ma che insomma ci prova lo stesso, in maniera ben più virile e sarebbe già pronto a fare di meglio, di meglio delle rose.. Già, meglio delle rose, ma cosa?

Nella mia fantasia vagheggiavo di prenderle un albero, ma che dico un albero, un intero bosco, così sai come impallidisce quello che si è limitato ad un misero mazzo di rose??? ‘Te lo faccio vedere chi sono io’ come cantava e canterebbe Piero Ciampi..

Fattasi è ora di tornare. Le passo davanti e le dico che sto per andare che insomma se si muove la faccio accompagnare in albergo. Stiamo andando verso la macchina del collega 7UP, dove ci sono anche Armadillo e Alcantar, direzione bar. MI sento leggermente osservato mentre cammino con affianco Ierofania. D’improvviso uno squillare di cellulare. Messaggio. ‘L’uomo mascherato’ -come avevo apostrofato con lei questo eroe dei giorni nostri- le dico improvvisamente. Lei guarda il telefono e dice di si. Senza troppe storie le prendo il telefonino e saliamo in macchina. In un inglese pessimo questo signore risponde ai ringraziamenti di lei. Non un invito a cena, non un incontriamoci. L’uomo gioca evidentemente sporco.

Tutto procede. Riportiamo lei a casa, disseminiamo la zona di cimici e telecamere, paghiamo il portiere dell’albergo ed andiamo a prendere un bicchiere di vino, sempre allo ‘Sfascizarrozze’.

Le ore scorrono felici, l’argomento sempre lo stesso, Ierofania e le sue matte rose e l’ancor più matto mittente. Scorrono le ore e sono le 8. Nel frattempo passano Aspirino e Scappottata e tutti fanno il tifo. Dobbiamo andare fino in fondo a questa questione, tanto in fondo che non si dovrebbe poter raccontare.

Sul vago le mando un sms alle 8 e qualcosa, hai visto mai che..

E la risposta è di quelle che ti lasciano un punto interrogativo per la testa… Nonostante avesse il mio numero risponde con un ‘Ciao Gazzoso, sei tu? Ci vediamo in Hotel?’ anche lei con un inglese da far pena a quello di Alvaro Vitali in arte Pierino quale studente inadatto ad ogni apprendimento possibile….

E qui rimango sospeso.. ma probabilmente stavo per commettere un altro dei miei errori…



Cose Russe, parte prima
11 aprile 2013, 13:45
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Già il fatto che nevicasse quella domenica pomeriggio, mi doveva far pensare che qualcosa stesse per accadere. Mi svegliai dopo il solito fine settimana di eccessi alcolici in un letto non mio perché avevo costretto i miei amici Aspirino e Telefonina a stare svegli a sentire le mie storie alcoliche fino alle 6 di mattina mentre sorseggiavo ancora qualcosa.

 

Fuori piove in maniera disperata e inesorabile, il cielo è completamente chiuso e senza il minimo segno di flabile speranza; oltretutto fa freddo, un freddo bastardo che non ti aspetteresti in una domenica primaverile.

 

Il programma prevede un pranzo che inizialmente doveva svolgersi presso casa del Timballo, ma che successivamente, per ragioni di spazio vitale era stata spostata a casa degli amici Alcantar e Sadimatu. Nessuno bevve alcolici a quel pranzo. Eravamo realmente stanchi, distrutti dalle due precedenti serate di eccessi. Distrutti, si, come vogliono tutte le mie domeniche pomeriggio. Tra le parole lente si viaggia con la testa verso quello che sarà il  giorno successivo, il lunedì, notoriamente il sacrificio supremo di ogni settimana.

 

‘Verrà una ragazza russa’ dico ‘dice  Samovara che è molto carina’..

 

‘Vedremo’..

 

La giornata continua lenta, silenziosa e sotto le coperte, a guardar la nave grassa scendere giù, ascoltando musica varia, leggendo qualcosa di qua e di là, nell’ozio completo.

 

Il lunedì arriva, antipatico come suo solito. Si entra in ufficio. Tutto pare uguale. Le facce un po’ sbattute, il buongiorno lento e annoiato, poca energia. Poi arriva lei, Ierofania. Dico ‘cazzo… carina??? Questa è proprio bravissima’ fra me, mentre collego il computer a tutte le altre diavolerie tecnologiche di cui la mia azienda mi dota.

 

Certe notizie, lo ricordava De Andrè, non hanno bisogno di nessun giornale. In pochi minuti l’effluvio e l’incanto che facevano da coda a Ierofania si diffusero nell’aria, aleggiavano per l’ufficio, come dolce richiamo. La tecnologia, poi, ci connette. Così timidi e vaghi giungevano i primi contatti interessati. Ma chi è questa?? Chiedono i più. Intanto guardo il mio schermo, poi guardo lei che siede di fronte a me, fascinosa, magnetica, perturbante, mentre il mio collega le spiega delle cose.

 

Cominciamo a ricevere visite. Persone di uffici e funzione lontane che guarda caso hanno bisogno proprio adesso di quel famoso documento o di rivedere un collega che non ci si vede mai ed è un peccato.

 

Io la guardo, rido, sento i miei amici Aspirino e Alcantar. Nulla sappiamo di quello che sarebbe successo nei giorni successivi, ma intanto ci scambiamo commenti e battute attraverso innumerevoli email.

 

Giunge il pranzo. E con questo la prima passerella di Ierofania in società. Ed è qui che cominciamo a capire cosa potrebbe accadere…

 

Al suo passare, come si conviene alle personalità, le persone si spostano come le acque alla vista di Mosè. Commenti, risatine, sguardi eccitati o invidiosi, tutto si sussegue nel tempo del suo passaggio.

 

Per sventura o impeto me ne sto mezzo infermo in ufficio. Insomma il caso non vuole che vada a pranzo con lei. Ma capisco ben presto cosa Aspirino intendesse quando mi dice ‘si sono fermati tutti a guardarla’ quando nel pomeriggio faccio collezione di email di richieste di informazioni…

 

E poi le visite si fanno più frequenti e scopro – che stupore! – che tutta l’azienda lato maschile è molto ma molto interessata al mio sport e soprattutto che tante persone che consideravo semplici colleghi sono in realtà grandi amici premurosi, volenterosi di conoscere la mia opinione sui più disparati casi della vita e preoccupati – e molto – per la mia momentanea infermità. LA stessa scoperta la fanno tutti i colleghi che lavorano nella mia area. Un mondo meraviglioso.

 

Insomma le giornate sono una continua processione di persone, un andirivieni incredibile e festoso e poi ci sono i momenti di silenzio e meditazione; il guardarla è un qualcosa di poco salutare, ma di inevitabile. L’immaginarla svestita la logica conseguenza.

 

Nel frattempo con Aspirino e Alcantar continuiamo a ridere e scherzare, ad osservare gli atteggiamenti delle persone, a  godere della nostra momentanea popolarità.

 

Succede che martedì siamo a cena da Samovatara. Lei mi siede di fianco, a fatica respiro quando per puro errore i nostri piedi entrano a contatto – e succede spesso.

 

Torno a casa. Bisogna inventarsi qualcosa, mi ripeto.

 

E così il giorno dopo, anche interpretando il desiderio di altri maschietti dell’ufficio, le chiedo ‘Ierofania, stasera andiamo a cena fuori con alcuni amici, vuoi venire?’ neanche finisco di parlare che lei ha già accettato. Bene. La sera passiamo a prenderla in albergo. Sono con il mio amico Trappe e stiamo andando a prenderla. Lui non lavora con noi e non verrà a cena con noi, ma solo a bere un bicchiere. Bene. Stiamo avvicinandoci all’evento che cambierà i nostri prossimi giorni, ma non n e abbiamo minimamente idea.

 

Chiamo Ierofania. Le avevo promesso uno squillo, ma non vorrei che fosse motivo di ritardi, Trappe ha poco tempo. Scendo dalla vettura proprio di fronte all’ingresso dell’Hotel e la vedo camminare per guadagnare l’uscita quando vedo che un dipendente dell’albergo le si fa incontro e la ferma. Poi vedo un voluminoso e rossissimo mazzo di rose venirle incontro, quasi camminasse da solo, invece era perché tanto grande quanto era, impediva all’uomo dell’albergo di farsi vedere in qualche modo. Saranno state 50/60000 rose. Un campo intero, una foresta di rose.. Lei scompare dietro tutte queste rose. Intanto mi accorgo che la zona è impestata da colleghi di vario genere, biscazzieri, spie, personaggi che cercano di far apparire la loro presenza lì del tutto casuale. ‘Andiamo  a mangiare dallo sfasciacarrozze dietro la collina’, mi lascio scappare ad un collega; è il primo di una serie di errori che in queste giornate concitate avrei commesso.

 

 

 



I paralipomeni della deerstolcherite

Eravamo al bancone. Aveva capelli paglierini e un naso piccolo , occhi sognanti e molto colore in viso. Le verso un sorriso dentro il bicchiere, muove piano la mano. ‘Odio tante, tantissime cose’.

Mi guarda e non mi guarda, insicura dell’unica certezza, il respiro lento, lungo, cerca calma, una tempesta dentro allo stomaco.

‘Sai, l’incertezza è lo stato più sicuro, in bilico si sta bene, non andiamo del resto sempre in moto? Siamo abituati, folgore nella notte, vento in faccia, te la costruisci tu la certezza, solida come una quercia, agitata che le cose troppo calme sono le più pericolose e poi sai, ci piace. Ci piace che sia così che il vento ci soffi in faccia che le mani si gelino che la pioggia ci entri dentro, abbracceremo poi il termosifone, pagheremo forse il gas, se avremo di che pagarlo e via, oggi è un altro giorno e possiamo imparare qualcosa, una parola nuova in inglese, un concetto, incuriosirci per una primavera sfumata, guardare la pioggia scendere, indossare un cappello che ai più pare buffo ma che a noi, oh, piace tanto e chissenefrega..

Annuisce, non capisce. ‘Ti piace il tuo lavoro?’ ‘E’ uguale, un modo per stare al mondo, guardarsi attorno e non sperare in nulla. E’ fuorviante la speranza, che vuoi che sia, un gioco a somma zero, una capriola verso l’aldilà, che però ti proietta di nuovo al di qua, nel circolo degli sbadati, circondati non già da vasi di coccio, ma da immagini di altri, soggetti in divenire, mestieri e non esseri, wannabe something, medici e quadri aziendali, accarrierati e truffaldini che tendono,  in quanto non sono, ad essere, desiderano, loro che le stelle non sanno dove sono di casa e dimentichi di essere si proiettano in un divenire privo di innocenza.

Eravamo al bancone e il tempo correva. Saranno passati 3 bicchieri di vino che con una scusa scappi via, il bagno dici. E nella tua assenza ti parlo di me, ti dico quello che non vorrei e il bancone mi ascolta lui in luogo tuo, i rimorsi e le stronzate, le notti insonni e le lunghissime estati, con quella gioventù che era e che senti ancora ma non sai se ancora è qui di fianco a te, ti racconto delle nuvole da guardare, della calma, infinita calma che si prova a dormire su di un prato cullati appunto dalle nuvole e risvegliarsi sotto il limpido cielo del nord che sono le 22  e c’è ancora luce, ancora luce per andare a camminare da qualche parte, a guardare qualcosa, forse solo il sole andar via e sognare e sognare. Ti racconto di un universo di pensieri in rivolta, del cinismo come religione e della forza di stupirsi, di voler bene e di aprirsi. Il bancone mi sente, ma lui mi conosce, queste cose le sa bene, mi coccola e sussurra una canzone, ride con me o di me, non ricordo, mi accarezza poi, infine, mi capisce.

Torni dal bagno che vuoi andare via, luogo di perfetta dissuasione, gli occhi non ti sognano più, lasci spazio a un educato sonno ed io ti calpesto un piede per vedere se provi dolore o sei un fantasma, un’idea, un disegno del bancone che affianco a me ride, noncurante del mio dolore immaturo.

‘Me ne vado’ dici e mi porgi la guancia per un bacio, appena irritata per il calpestio, ma infondo mi hai già perdonato. ‘Domani lavoro presto, sai quel progetto di frullare le idee e salvarle nella memoria dello smartphone’ ‘già’ ‘ci sentiamo semmai su uotsapp’ ‘certo’ ‘sono fuori per diversi giorni le prossime settimane ho un paio di trasferte, ma chissà, magari ci vediamo in giro’ ‘non credo, un mio amico va in Normandia per muovere il mondo, vorrei raggiungerlo’ ‘eh? e con il lavoro?’ ‘Raccoglieremo mele, forse’ ‘Uh?’ ‘si qualche giorno di ferie e quel cielo veloce, con le nuvole che si rincorrono leggere e i pensieri che nascono, crescono e poi finiscono nel sidro, che -non esca da qui- a me non fa mica impazzire, ma sai, per loro è tradizione’.

Si è stufata, l’impazienza pervade il suo viso altrimenti carino, scherzare è lecito, filastroccare puttanate è diabolico, ‘devo davvero andare adesso.. allora ci rivedremo..’ un barlume di speranza che diventa convinzione la rende ora più serena, vede la porta d’uscita, è andata via.

Guardo il bancone e canto ‘We don’t need nobody else, we don’t need nobody else, just you and me’.

Il bancone sorride, mi sussurra, ‘ma dove è che vai tu?’ ‘Normandia passando per Brontolia, Cleptontown e Taomirina, un viaggio eccezionale, ne parlerò per anni, ma prima, prima, sarò ancora qui, vedremo ancora l’alba insieme e rideremo di nulla, da buoni amici’.

Caro Bancone, non ho mica le ali, vado da qualche parte ma poi torno, non ti lascio, non ti lascio mai, ma se non torno non mi cercare, non è la durata ma l’intensità che rende forte la nostra amicizia, tornerò con storie e sorrisi, tornerò prima o poi, tornerò… domani…